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Roma, 16 marzo 2008
QUANDO ANCHE LOTTA CONTINUA ERA IL PARTITO DEI VESCOVI
Marco Boato spiega che, dopo la svolta del cinema Colosseo,
«il giornale era diventato il portavoce di chi metteva la vita di Moro al primo posto».
E cominciarono ad arrivare telefonate di prelati

di Marco Boato
Pubblicato su Il Foglio di domenica 16 marzo 2008
(Intervento al convegno «Aldo Moro. Fermezza e trattativa trent’anni dopo»
organizzato dalla Associazione Walter Tobagi, alla Camera dei deputati,
Palazzo San Marco, il 13 marzo 2008)

Nel 1978 si era appena concluso un ciclo storico che va dal 1967 (anno del Vietnam) al 1968 (anno degli studenti) al 1969 (anno degli operai) fino al 1977 (anno del movimento dei non-garantiti e della cosiddetta “seconda società”). La strage di piazza Fontana del 1969 aveva segnato uno spartiacque storico, con la “perdita dell’innocenza” di una generazione ribelle e con l’inizio della strategia della tensione e delle stragi. L’Italia ha, da allora, conosciuto tre tipi di terrorismo interno: 1) terrorismo di destra; 2) terrorismo di sinistra; 3) terrorismo con complicità istituzionali nei “corpi separati” dello stato.

La sinistra extraparlamentare o la “nuova sinistra” è stata attraversata in tutta la sua storia decennale anche dal problema della violenza politica, ma ha preso sempre più le distanze dal terrorismo. Chi volle praticare il terrorismo e la lotta armata dovette “rompere”, ad esempio, con Lotta continua: da una prima rottura sul problema delle carceri, nacquero in parte i Nap; da una seconda rottura, sul terreno dello scontro sociale, nacque Prima Linea, un gruppo terrorista di matrice “operaista”, in concorrenza con le Brigate rosse, gruppo terrorista invece di matrice “marxista-leninista” e di stampo stalinista. Nella nuova sinistra non si è mai creduto alla favola ipocrita delle “sedicenti” BR o delle «Brigate Rosse che in realtà sono nere», propalata dal Pci negli anni Settanta.

Nel 1974, in pieno sequestro Sossi, a tre giorni dal referendum sul divorzio del 12-13 maggio, Panorama pubblicò una mia lunga intervista sulle Brigate Rosse, fattami dal giornalista Romano Cantore e pubblicata sotto il titolo redazionale «Sono solo avventurieri», un titolo che solo in parte rispecchiava il testo della mia intervista, che cercava di spiegare la vera identità delle BR. Per quella intervista, su richiesta del pm Guido Viola, fui chiamato a testimoniare, a Milano, dal giudice istruttore Ciro De Vincenzo nell’inchiesta cosiddetta “GAP-BR”. E, a seguito di quella testimonianza in istruttoria, fui poi chiamato a testimoniare il 20 aprile 1978, a Torino, nel primo troncone del processo contro i capi storici delle BR, tra cui Renato Curcio, di fronte alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Barbaro, e di nuovo l’anno successivo, nel 1979, a Milano, nel secondo troncone del processo GAP-BR, nel quale fu pm Guido Viola.

Il 18 aprile 1978, in pieno sequestro Moro, era stato diffuso il falso comunicato n. 7 delle BR, cosiddetto “del lago della Duchessa”, in cui era annunciata falsamente la morte di Moro (era opera di tale Tony Chicchiarelli, legato in parte alla Banda della Magliana e forse con qualche contatto con i servizi segreti). Non credetti – conoscendo bene la prosa dei comunicati delle BR – alla veridicità di quel comunicato. Il 19 aprile, in viaggio in treno verso Torino, scrissi a mano nel vagone ferroviario una lettera aperta a Renato Curcio, che avevo conosciuto bene negli anni Sessanta a Trento, prima nella Intesa universitaria e poi nel Movimento studentesco. «In nome di un’antica amicizia, interrotta ma non rinnegata» – così cominciava la mia lettera aperta – rivolgevo un appello a Renato Curcio «ad affermare il diritto alla vita di Aldo Moro e a contribuire in qualunque modo a indicare, qualunque essa possa essere, la strada per la sua liberazione».

Il giorno dopo, 20 aprile, dopo aver deposto di fronte alla Corte d’Assise (di cui faceva parte anche Adelaide Agiletta come giudice popolare supplente), chiesi al presidente Barbaro di poter consegnare il mio appello a Renato Curcio, rinchiuso nella gabbia dell’aula torinese. Barbaro volle prima leggere personalmente la mia lettera-appello e poi chiese all’avvocato Bianca Guidetti Serra di consegnarla direttamente a Renato Curcio. Curcio non mi rispose mai pubblicamente, ma, qualche giorno dopo, un imputato dei GAP a piede libero, Italo Saugo, anche lui ex studente di Sociologia a Trento, mi fece sapere che Curcio mi chiedeva di non rivolgermi mai più a lui personalmente, perché gli avrei creato problemi con gli altri detenuti delle BR.

Il giorno dell’omicidio di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, Renato Curcio dichiarò nell’aula della Corte d’Assise di Torino che l’assassinio di Moro «costituisce il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi». Leggendo sui giornali quelle parole orribili, frutto di un vero e proprio delirio ideologico, sentii allora quanto totale fosse la contrapposizione umana e politica con chi aveva fatto la scelta terroristica, anche se prima avevamo avuto un percorso comune nella politica universitaria e nel Movimento studentesco.

Comunque, la mia lettera-appello del 20 aprile per la vita di Moro ebbe una prima risonanza giornalistica, ma subito dopo, il 21 aprile, fu sovrastata e annullata dal grande clamore che suscitò l’appello drammatico di papa Paolo VI «agli uomini delle Brigate Rosse» perché liberassero Moro «senza condizioni». Ubi maior, minor cessat...

Mentre il Psi di allora, tramite Claudio Signorile, cercò riservatamente contatti con ex esponenti di Potere operaio (Lanfranco Pace e Franco Piperno), che potevano avere rapporti con loro ex compagni diventati militanti delle Brigate Rosse (come Morucci e Faranda), per agevolare la ricerca di un terreno di iniziativa se non dì trattativa, molto diversa fu la situazione che si creò nell’area di Lotta continua.

Lotta continua, come ho già ricordato, aveva già subito la fuoriuscita, prima, di militanti che diedero vita ai NAP e, poi, a metà degli anni Settanta, di altri che diedero vita a Prima Linea (tra i quali il figlio di Carlo Donat Cattin, Marco), proprio per aver eretto un muro invalicabile rispetto a qualunque degenerazione verso la lotta armata. Alla fine del 1976, Lotta continua aveva celebrato il suo ultimo Congresso a Rimini, che fu un Congresso di sostanziale (anche se non formale) autoscioglimento, sotto l’impatto durissimo e sconvolgente del movimento femminista anche al proprio interno (soprattutto in contrapposizione con la componente operaista e col servizio d’ordine, allora guidato a Roma da Erri De Luca, oggi noto scrittore).

Dopo quel Congresso di Rimini, Adriano Sofri, leader indiscusso del movimento, si ritirò a vita privata, ma l’omonimo quotidiano continuò le pubblicazioni fino al 1981, rimanendo quindi un punto di riferimento, con diffusione crescente soprattutto nel 1977, di una vasta area di movimento: un punto di riferimento politico e culturale, ma non più organizzativo. Dopo la fine del movimento del ‘77, in p dopo il Convegno di Bologna “contro la repressione” del settembre 1977, si apri una fase di “riflusso”, da una parte, ma anche di avvicinamento alla lotta armata da parte di molti protagonisti del movimento del ‘77, reclutati dai gruppi clandestini (le cui sigle si stavano moltiplicando) e finiti in gran parte in car cere negli anni successivi.

Quando avvenne il sequestro Moro (con l’assassinio dei suoi uomini di scorta) da parte delle Brigate Rosse, quella che ho definito l’ “area di Lotta continua” rappresentava la parte più consistente della nuova sinistra di allora ormai in fase declinante e in rapido esaurimento. Il dibattito sul sequestro Moro e sulle Brigate Rosse fu durissimo e, dopo i primi giorni all’insegna dello slogan «né con lo Stato né con le BR» (uno slogan equivoco, che comunque segnava una contrapposizione con le BR in una prima fase di disorientamento generale), prevalse una posizione di netta condanna del sequestro operato dalle BR.

La contrapposizione fra due diverse posizioni esplose in un’assemblea convocata dalla redazione di Lotta Continua, a Roma, al cinema Colosseo, nella quale furono sconfitte le tesi di chi puntava a una sorta di equidistanza tra lo Stato e le BR. Da quel giorno prevalse in Lotta continua la linea che puntava con tutte le forze alla liberazione di Aldo Moro e, quindi, la linea che chiedeva di far prevalere le ragioni umanitarie (la salvezza di Moro anche attraverso una trattativa) sulla cosiddetta “ragion di Stato”, incarnata dalla linea della fermezza, una fermezza che definimmo “cadaverica”.

Sembra incredibile oggi ricordarlo, ma – come ha scritto Adriano Sofri nel libro «L’ombra di Moro» pubblicato da Sellerio nel 1991 – «volevamo fare qualcosa. Avremmo fatto qualunque cosa. Il giornale Lotta continua era diventato il portavoce di chi metteva la vita di Moro al primo posto; divenimmo ‘il partito di Lotta continua e dei vescovi’, come si disse con sarcasmo o forse lusinghieramente» (p. 86). Sembra incredibile – lo ripeto – ma alla redazione di Lotta continua cominciarono ad arrivare telefonate di vescovi italiani, che chiedevano di pronunciarsi da quelle pagine per la vita di Moro, in contrapposizione alla fermezza della ragion di stato, e chiedevano di aggiungere la loro firma a un appello per salvare la vita di Moro, con le iniziative conseguenti.

Tutto questo la dice lunga su quale cappa di piombo fosse scesa nella informazione giornalistica italiana, quasi totalmente schierata con la “linea della fermezza”, dal momento che neppure i vescovi riuscivano a far sentire la loro voce a favore della battaglia per la vita di Moro, se non attraverso le pagine di Lotta continua. L’appello, firmato da un gran numero di uomini di chiesa e di intellettuali cattolici e laici, fu pubblicato poi sul numero di Lotta continua del 19 aprile, il giorno dopo la diffusione del falso comunicato “del lago della Duchessa”, che annunciava la morte di Aldo Moro.

Questo impegno della parte prevalente della nuova sinistra di allora, per la vita di Aldo Moro, creò un’obiettiva sintonia – sia pure in ruoli completamente diversi, com’è ovvio – con l’iniziativa politica e umanitaria del Psi di Craxi, al punto che successivamente lo stesso partito diede un contributo economico per far sopravvivere il quotidiano in difficoltà e, qualche anno dopo, lo stesso Psi, tramite Claudio Martelli, sostenne la nascita del nuovo quotidiano Reporter, sorto dalle ceneri di Lotta continua, nella cui redazione cominciò a scrivere, con uno pseudonimo, un Giuliano Ferrara appena uscito dal Partito comunista e ancora in difficoltà dopo quella rottura. Ma questa è, ovviamente, un’altra storia, anche se trova la sua origine proprio nella sintonia che sì era creata tra i socialisti e l’area di Lotta continua, nei giorni drammatici e tragici del sequestro prima e dell’assassinio poi di Aldo Moro.

La tragedia di Moro segnò un prima e un dopo, non solo per la società italiana e il sistema politico in generale, ma anche per la nuova sinistra. Nulla fu più come prima. Nessuno può dire obiettivamente se davvero Moro si sarebbe potuto salvare, se fosse prevalsa la linea umanitaria – col primato della persona rispetto alla ragion di Stato – sulla linea che ho definito della fermezza “cadaverica”.

E tutti dobbiamo resistere, anche trent’anni dopo, alle ricostruzioni e interpretazioni “dietrologiche”. Aldo Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse e non dalla Cia, dal Kgb o dai servizi segreti deviati (che pure c’erano e operavano). Aldo Moro è stato barbaramente ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse, che ne portano la responsabilità. Ma è certo che quello che si poteva tentare di fare per salvarlo (forse senza riuscirci comunque: nessuno può dirlo con certezza) non è stato fatto. A fare questo tentativo furono in pochi, mentre i più arrivarono addirittura a disconoscere la stessa identità e consapevolezza di Moro, rifiutandosi di riconoscere persino l’autenticità delle sue lettere dalla «prigione del popolo» e la sua «intelligenza degli avvenimenti», che in realtà si cimentò fino all’ultimo anche in quelle condizioni disperate. Oggi tutti rileggono le lettere di Moro con occhi e animo diversi. Ma allora purtroppo non fu così.

 

  Marco Boato

MARCO BOATO

BIOGRAFIA


  

L'appello firmato da uomini di chiesa e intellettuali fu pubblicato il 19 aprile, subito dopo il comunicato del "lago della Duchessa."

La tragedia segnò un prima e un dopo, non solo per la società italiana e il sistema politico in generale, ma anche per la nuova sinistra.

 

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